domenica 14 febbraio 2010

Morning Glory «piccolo capolavoro», parola del Vaticano

Quest’anno, alla vigilia di Sanremo, l’Osservatore Romano ha diffuso un «piccolo prontuario di resistenza musicale» come antidoto alla marea «perniciosa» di canzoni festivaliere. Il popolare festival è un evento che non ha mai riscontrato l’entusiasmo del Vaticano, come si evince dall’iniziativa pubbicata dal giornale d’Oltretevere.

Bisogna prepararsi: «l’onda canora, invece di sommergere a mo’ di castigo le isole frequentate da ex famosi restii alla rassegnazione, inonderà implacabile l’etere fino alla prossima estate». Che fare, allora, per non restare completamente travolti e per ricordare che un’alternativa esiste? Semplice, tenere a mente una specie di decalogo musicale, il «prontuario della buona musica» appunto. Un sentiero idealmente segnato da alcune pietre miliari, «ovvero da alcuni dischi di cui non si può fare a meno per ritemprare gli esausti padiglioni auricolari dell’uomo mediatico». Ecco il decalogo musicale degli ever-green. Revolver, dei Beatles, si legge sul giornale della Santa Sede, è senz’altro la prima opera da consigliare. Il disco è stato pubblicato dai fab four nell’ormai remotissimo 1966.

Quarantaquattro anni portati egregiamente a cominciare dalla elegantissima copertina in bianco e nero di Klaus Voorman. Ma l’attualità del disco non si limita certo alla veste grafica. «Il disco segna una netta cesura con la produzione precedente e un punto di non ritorno per la musica leggera contemporanea. Alcune canzoni come Taxman e Got to get you into my life sembrano composte ieri».

La seconda pietra miliare è «If I could only remember my name» (1971), manifesto hyppie ascritto al sognante genio di David Crosby, ma alla cui produzione hanno partecipato tutti i migliori musicisti della West Coast, da Joni Mitchell a Jerry Garcia, da Neil Young a Jorma Kaukonen. Erano i giovani della generazione di Woodstock, ribelle e senza una direzione. Giovani troppo spesso votati all’autodistruzione, dalle cui canzoni trapela una fragilità esistenziale che ne spiega l’autolesionismo.

Il terzo disco è di nuovo inglese. Si tratta di «The dark side of the moon» dei Pink Floyd, che per quasi un decennio ha stazionato nelle top mondiali. «Forse anche per il suo enorme successo commerciale l’album è abbastanza inviso ai puristi che preferiscono altri lavori della band, come Ummagumma, certamente più tormentato e sperimentale. Ma la differenza che passa tra i due lavori è più o meno la stessa che distingue un sushi da una carbonara cucinata a regola d’arte».

Segue poi «Rumours» - dodicesimo disco dei Fleetwood Mac, tra i più venduti di tutti i tempi. Pubblicato nel 1977, «fonde in un intrigante mix le radici blues del gruppo statunitense con il meglio del pop inglese e americano, senza dimenticare il country». La sua forza sta nella deliziosa e riuscita «combinazione di strumenti acustici ed elettrici, ma ciò che rende Rumours un’opera importante, è la contraddizione tra la sua superficie allegra e l’angosciata intimità, fatta di rabbia, recriminazioni e perdita».

Al quinto posto si trovano atmosfere metropolitane. «The nightfly» di Donald Fagen, pubblicato nel 1982. «Un disco di nicchia, che non ha mai raggiunto il vero successo commerciale, ma che per i cultori del genere rimane un vero must».

Sempre nel 1982 viene pubblicato «Thriller» di Michael Jackson che può solo «fino a un certo punto essere considerato un disco di black music. In effetti Jackson aveva già cominciato la sua progressiva opera di scoloramento». «Thriller» resta il capolavoro del re del pop proprio per la sua forza innovativa rispetto agli schemi, ormai stereotipati, della black music.

Al sesto posto viene collocato Paul Simon, con «Graceland», che segna in qualche modo la nascita ufficiale della world music. «Due anni prima Simon si era imbattuto in un disco con la musica nera dei ghetti di Johannesburg. Ne rimase affascinato al punto da iniziare una personale ricerca, andando in Sud Africa, per carpire le sonorità dei musicisti locali».

Al settimo posto c’è «One» a giustificare la scelta di Achtung baby, settimo album degli U2 datato 1991. Ma One è solo la più riuscita di dodici canzoni ad altissimo contenuto musicale e testuale. «L’elettronica entra prepotentemente nel sound del gruppo guidato da Bono, anche se la parte del leone spetta alla chitarra di The Edge, aggressiva come mai in precedenza».

All’ottavo si trovano gli Oasis dei terribili fratelli Gallagher, figli inquieti - per usare un eufemismo - della working-class. «(What’s the story) Morning glory?» (1995) rimane «il loro piccolo capolavoro». Clicca qui per leggere la motivazione

«Supernatural» di Carlos Santana (1999) invece offre autentica «dignità a un filone, quello dei duetti, che si va affermando per ragioni di mercato. Oltre l’aspetto commerciale, il disco del chitarrista messicano, unico reduce della Woodstock generation ancora in auge, fa capire che, con chi sa davvero suonare, il tempo è galantuomo».

Infine il decimo posto è riservato a Bob Dylan al quale viene riconosciuta una «grande vena poetica che sconfina spesso nel visionario e, dopo la conversione, nel messianico». Tuttavia ha una «grandissima colpa» quella di aver dato il via a intere generazioni di cantautori «belle parole più tre note», che «in tutto il mondo - ma soprattutto in Italia - hanno messo a durissima prova le orecchie e la pa
zienza degli ascoltatori, pretendendo che a qualcuno potessero interessare i loro tortuosi percorsi».

Franca Giansoldati

(ilmessaggero.it)

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