La prima delle tappe italiane dello Stranded on the Earth World Tour è stata l'esatto contrario di quello che ci si aspetta da un evento di tale portata, con l'inevitabile codazzo - già in platea, ad amplificatori ancora accesi - di chiose grondanti lirismo. In senso positivo, si intende. Ed è stato difficile non pensare da quanto detto dallo stesso Noel Gallagher lo scorso novembre, quando passò dalle nostre parti per presentare alla stampa la sua ultima fatica da solista. Se il rock - specie quello corporate: noi di nomi non ne facciamo, ma lui sì - è diventato urla, tatuaggi, birra e giacche di pelle, meglio prendere altre strade. O, meglio, tornare al rock quando il rock era solo - sono sempre parole sue - "fare quel che cazzo che ti va". E così ha fatto, Noel, presentando dal vivo al pubblico italiano il suo ultimo disco - e ovviamente non solo.
Inutile soffermarsi su quanto la band sia rodata, su quanto il suono sia solido e ben calibrato – anche se un po' impastato, a tratti, nella porzione di parterre meno vicina al palco: con The Chief al timone certe cose si danno per scontate. Il maggiore dei Gallagher è tanto roboante in termini di esternazioni quanto concreto e diretto quando a parlare è la musica: lo show offerto questa sera al Fabrique è stato l'esempio di come un concerto possa ancora intrattenere senza ricorrere al doping degli effetti speciali. E' un bene, quindi, che in scaletta a fare la parte del leone sia "Who Built the Moon?", disco che per certi versi ha spiazzato i fedelissimi. Il poker d'apertura - "Fort Knox", "Holy Mountain", "Keep on Reaching" e "It's a Beautiful World" - dà subito l'indicazione di quella che sarà la cifra della serata: Gallagher non vuole né celebrarsi né celebrare la sua scrittura, ma solo prendersi quelle libertà che probabilmente negli anni addietro gli sono mancate.
Se la misura della grandezza si calcola da come si gestisce un passato importante, non ci si può che complimentare con Noel per come l'inevitabile parentesi dedicata agli Oasis si stata incastonata nella setlist: sei canzoni in tutto - "Little by Little", "The Importance of Being Idle", "Half the World Away", "Wonderwall", "Go Let It Out" e "Don't Look Back in Anger", che dopo Manchester, piaccia o meno la retorica della musica riflessa sull'attualità, la si ascolta con tutt'altre orecchie, specie se a cantartela davanti è lui - spalmate ovviamente in punti strategici del set, tra metà serata e gran finale, fanno la felicità dei nostalgici – e sono tanti: li si riconosceva dallo smartphone sguainato in modalità videocamera sui classici, e sintonizzato su Juventus / Real Madrid durante le altre canzoni - ma Noel non era qua per loro.
Lui, rude mancuniano, a tenere la nostalgia a distanza di sicurezza è bravo, forse anche troppo per una buona fetta di pubblico, ma tant'è: non avrebbe potuto fare altrimenti. Perché al di là del retaggio, dell'inevitabile affetto di chi i gloriosi anni del britpop li ha vissuti in diretta, la raison d'être di uno spettacolo di Noel Gallagher nell'anno domini 2018 è solamente una: tentare di rendere ancora interessante e piacevole una canzone, suonata senza fronzoli o patetici ammiccamenti alla moda del momento. Lui, che ormai ha cinquant'anni e - per fortuna sua e nostra - nessuna voglia di seconde o terze giovinezze, lo chiama pop, ma l'etichetta ha poca importanza: finché continuerà a fare il cazzo che gli pare, noi continueremo a divertirci. Senza pretese di chissà che epifanie o esperienze totalizzanti, perché come dicevano dei buoni amici dei suoi idoli – questi ultimi citati nel finale con una rispettosa rilettura di “All You Need Is Love” - "it's only rock'n'roll". E tanto basta.
(dp)
SCALETTA:
Fort Knox
Holy Mountain
Keep on Reaching
It's a Beautiful World
In the Heat of the Moment
Riverman
Ballad of the Mighty I
If I Had a Gun...
Dream On
Little by Little (Oasis)
The Importance of Being Idle (Oasis)
Dead in the Water
Be Careful What You Wish For
She Taught Me How to Fly
Half the World Away (Oasis)
Wonderwall (Oasis)
AKA... What a Life!
BIS:
The Right Stuff
Go Let It Out (Oasis)
Don't Look Back in Anger (Oasis)
All You Need Is Love (Beatles)
(Rockol.it)
Ieri cadeva un anniversario particolare, una ricorrenza che di certo non sarà sfuggita alla frangia più ‘radicale’ presente al Fabrique, tutti quei “Med for it” che attendevano con ansia quasi religiosa l’arrivo sul palco di ‘The Chief’ Noel Gallagher. Era l’11 aprile, ma del 1994, una band di underdog rubati al cantiere si presentava sulle scene con un singolo improvvisato, un biglietto da visita che già in quel suo titolo ‘supersonico’ racchiudeva l’attitudine hooligana che, negli anni successivi, avrebbe gonfiato le tasche dei quotidiani britannici, tra risse con ultras rivali e sbottate cui il miglior titolista del Daily Mail non avrebbe saputo aggiungere nulla di meglio. Un quo nihil maius cogitari possit del cafone da pub, preso per il bavero della tuta adidas e gettato su un palco, ancora ubriaco, se non peggio.
Sono passati più di vent’anni da quei due adorabili cazzoni raccontati dal docu-film Supersonic, Noel è ormai un sobrio padre di famiglia, Liam – in teoria – pure, lo stesso vale per il pubblico che, dell’anthem “I’m feeling Supersonic, give me a gin and tonic“, aveva fatto uno stile di vita; ormai l’età avanza e andare in ufficio in hangover è sempre più eroico. Sarà per questo, forse, che ieri la fila di gente per entrare al Fabrique era estremamente composta, forse troppo, nonostante il diluvio universale che si stava abbattendo su Milano. Pochi tagli di capelli mods, pochissimi cori dei soliti “Soooo Sally can’t wait….” e via dicendo. Tuttavia, bastano i primi accenni di Fort Knox, lo strumentale con cui Noel apre il concerto, per cambiare immediatamente le carte in tavola, perché l’atmosfera è la stessa con cui Fuckin’ In the Bushes introduceva sul palco gli Oasis. Tolte le giacche a vento, iniziano a spuntare come funghi le casacche azzurre del Manchester City e il nome sulle spalle non è quello di Kun Agüero, ma Gallagher.
Gli High Flying Birds sul palco sono otto, compresa la ormai nota suonatrice di forbici e gli ex compagni di scuderia Chris Sharrock e Gem Archer, quasi irriconoscibile dietro gli occhiali scuri e i capelli ormai brizzolati. Le tre coriste danno alla voce di Noel l’impatto giusto e il pubblico è caldissimo quando parte il riff di Holy Mountain: anche se il singolo è tratto dall’ultimo album solista uscito lo scorso novembre, già si intravede il varco temporale che dal 2018 porterà dritti al ’96, accompagnati dal vecchio amico gin tonic con buona pace per l’ufficio il giorno dopo. La festa regale del britpop parte verso la Madchester dei primi 90’s, tra la cassa dritta di Keep On Reaching e il loop di basso di It’s a Beautiful World, per poi infiammarsi con In The Heat Of The Moment, una fra le hit più trascinanti del Noel solista. Dalla platea cominciano a intonare l’immancabile ‘Who the fuck are Man United’, inno dei tifosi blues del City, mentre sul palco, alle spalle di Noel, campeggia ben in vista lo stendardo della squadra del cuore.
Tuttavia, la prima parte del concerto, completata con la ballad Riverman e dalla danzereccia Ballad Of The Mighty I, è un sunto della nuova vita di Noel, lontano dalle sonorità che hanno conquistato schiere di adepti in tutto il mondo. I religiosi sing along iniziano solo qualche istante più tardi, con If I Had The Gun e Dream on, brani scritti da Gallagher nei giorni in cui gli Oasis iniziavano a tramontare e per questo dritti come una freccia al cuore dei nostalgici. Un esercito di telefonini si solleva, Noel sembra divertito dal pubblico 2.0, che al posto della pinta innalza il cellulare, ma il duetto tra l’artista sul palco e le voci all’unisono in platea è lo stesso di sempre.
Basta una sola frase e il cuore dei presenti si ferma: «Ciao Milano, is there any Oasis fan here?», il boato è quello dei tempi d’oro. Il Fabrique non sarà Knebworth, ma le dimensioni del locale sono perfette per l’occhiolino con cui Noel ammicca ai fedeli, ancora in apnea e sull’orlo di una crisi di pianto non appena risuonano le prime note di Little By Little. Fra il delirio collettivo non sembra passato un solo secondo dallo scioglimento della band e, neanche il tempo di immolare le corde vocali sull’ultimo ‘Why am I really here?’, che il coro “Oa-si-s-Oa-si-s” arriva come uno tsunami, seguito a ruota da The Importance Of Being Idle e dal secondo gin tonic. La festa del britpop si sta trasformando in un baccanale.
E sarà per l’alcol che inizia a farsi sentire, o per il fianco scoperto del pubblico alla nostalgia canaglia, che le prime lacrime si iniziano a intravedere su qualche viso tra quelli in platea non appena Noel, da solo sul palco con la sua Gibson J200, attacca Dead In The Water, bonus track di Who Built The Moon? ma che più Oasis non si può. Il silenzio è lo stesso che accompagnava The Chief nei primi tour solisti ai tempi della band, perché quando Noel va in acustico non ce n’è per nessuno.
La ‘beatlesiana’ Be Careful What You Wish For e l’ultimo singolo She Taught Me How To Fly – “This is for the ladies“, introduce il vecchio marpione sul palco – riportano la folla nel caleidoscopico cosmic pop sfoggiato da Noel sull’ultimo lavoro in studio, magistralmente realizzato dalla band sul palco – «ricrearlo con una cazzo di chitarra sarà fottutamente difficile», ci aveva raccontato Noel a Londra, nei giorni in cui iniziava le prove del tour. Infatti, se gli Oasis, soprattuto nei primi anni, suonavano sempre più distorti del necessario, la parola chiave per comprendere la nuova direzione High Flying Birds è “ordine”. Ogni assolo, ogni sustain, ogni effetto sugli organi è perfettamente studiato, ogni brano composto su misura per la voce di Noel, senza più preoccuparsi se la sgolata del fratello non riesce a raggiungere gli acuti. Il progetto High Flying Birds, infatti, non rappresenta solo la pace personale del maggiore dei due Gallagher dopo che la Ferrari fuori controllo degli Oasis si è andata a schiantare, ma la nuova band è anzitutto una squadra agli ordini del capo, in cui tutto suona come deve e non c’è bisogno di smezzarsi i riflettori.
«Ormai sembra una versione psichedelica degli U2», commenta una ragazza parlando del nuovo suono abbracciato da Noel per l’ultimo disco. Un’affermazione che, se Liam fosse stato presente, probabilmente le sarebbe valsa una stretta di mano da parte di Our Kid. Affermazione, tuttavia, subito ingoiata: Noel torna a imbracciare la chitarra acustica e colpisce implacabile allo stomaco con la doppietta Half The World Away/ Wonderwall. Si salvi chi può: la malinconia ormai è impossibile da arginare, i gin tonic pure. A suggellare il brindisi generale arriva AKA… What A Life!, e ora sembra davvero di stare in pista all’Haçienda nel ’95.
Nonostante lo struggimento per i tempi andati, però, è la suite The Right Stuff a regalare uno dei momenti più alti della serata. La perfezione degli High Flying Birds è spiazzante, la corista YSEÉ si prende la scena mentre Noel si defila, quasi la canzone fosse la sua Unfinished Sympathy e la cantante quello che Shara Nelson è per i Massive Attack. Da qui fino alla fine, il concerto diventa la glorificazione della nostalgia. Parte Go Let It Out, per l’unico momento in cui si avverte l’assenza del rasoio che Liam aveva al posto della voce negli anni di Standing On The Shoulder Of Giants. Poco male, alcuni tra il pubblico mettono le mani dietro la schiena e innalzano il mento al cielo: il gioco è fatto. «Milano non vi sento», incita Noel.
Chiusura consegnata all’immancabile trionfo di Don’t Look Back in Anger, affidata alla voce unisona del pubblico sui primi ritornelli, com’è sempre stato e sempre sarà, perché non puoi dire di aver amato gli Oasis se non sei pronto a sacrificare le corde vocali per Sally, e per Noel. C’è spazio anche per un omaggio, All You Need Is Love, e Noel esce di scena come è entrato, con la faccia di un musicista consapevole dei suoi mezzi, che non ha più niente da dimostrare a nessuno.
La sobrietà d’inizio concerto è decisamente sbiadita, e in ogni angolo del Fabrique risuonano i ritornelli di Live Forever da una parte o di Supersonic dall’altra: la canzone ieri sera compiva gli anni, in molti ci speravano. A concerto terminato ci sono alcuni tifosi interisti (ma veneti) che brindano alle gufate andate a buon fine mentre i bianconeri bevono per dimenticare la beffa di Madrid, seguita tra una canzone e l’altra. Nessuno vuole andare via, con gli steward del locale costretti ad accompagnare fuori gli ultimi nostalgici, fino all’ultimo sorso avvinghiati al passato come fosse l’ultima boa cui aggrapparsi in un oceano in cui gli Oasis non torneranno mai più. Un brindisi all’infinita sbornia del britpop, perché quella sì, non morirà mai.
(RollingStone.it)
Ieri cadeva un anniversario particolare, una ricorrenza che di certo non sarà sfuggita alla frangia più ‘radicale’ presente al Fabrique, tutti quei “Med for it” che attendevano con ansia quasi religiosa l’arrivo sul palco di ‘The Chief’ Noel Gallagher. Era l’11 aprile, ma del 1994, una band di underdog rubati al cantiere si presentava sulle scene con un singolo improvvisato, un biglietto da visita che già in quel suo titolo ‘supersonico’ racchiudeva l’attitudine hooligana che, negli anni successivi, avrebbe gonfiato le tasche dei quotidiani britannici, tra risse con ultras rivali e sbottate cui il miglior titolista del Daily Mail non avrebbe saputo aggiungere nulla di meglio. Un quo nihil maius cogitari possit del cafone da pub, preso per il bavero della tuta adidas e gettato su un palco, ancora ubriaco, se non peggio.
Sono passati più di vent’anni da quei due adorabili cazzoni raccontati dal docu-film Supersonic, Noel è ormai un sobrio padre di famiglia, Liam – in teoria – pure, lo stesso vale per il pubblico che, dell’anthem “I’m feeling Supersonic, give me a gin and tonic“, aveva fatto uno stile di vita; ormai l’età avanza e andare in ufficio in hangover è sempre più eroico. Sarà per questo, forse, che ieri la fila di gente per entrare al Fabrique era estremamente composta, forse troppo, nonostante il diluvio universale che si stava abbattendo su Milano. Pochi tagli di capelli mods, pochissimi cori dei soliti “Soooo Sally can’t wait….” e via dicendo. Tuttavia, bastano i primi accenni di Fort Knox, lo strumentale con cui Noel apre il concerto, per cambiare immediatamente le carte in tavola, perché l’atmosfera è la stessa con cui Fuckin’ In the Bushes introduceva sul palco gli Oasis. Tolte le giacche a vento, iniziano a spuntare come funghi le casacche azzurre del Manchester City e il nome sulle spalle non è quello di Kun Agüero, ma Gallagher.
Gli High Flying Birds sul palco sono otto, compresa la ormai nota suonatrice di forbici e gli ex compagni di scuderia Chris Sharrock e Gem Archer, quasi irriconoscibile dietro gli occhiali scuri e i capelli ormai brizzolati. Le tre coriste danno alla voce di Noel l’impatto giusto e il pubblico è caldissimo quando parte il riff di Holy Mountain: anche se il singolo è tratto dall’ultimo album solista uscito lo scorso novembre, già si intravede il varco temporale che dal 2018 porterà dritti al ’96, accompagnati dal vecchio amico gin tonic con buona pace per l’ufficio il giorno dopo. La festa regale del britpop parte verso la Madchester dei primi 90’s, tra la cassa dritta di Keep On Reaching e il loop di basso di It’s a Beautiful World, per poi infiammarsi con In The Heat Of The Moment, una fra le hit più trascinanti del Noel solista. Dalla platea cominciano a intonare l’immancabile ‘Who the fuck are Man United’, inno dei tifosi blues del City, mentre sul palco, alle spalle di Noel, campeggia ben in vista lo stendardo della squadra del cuore.
Tuttavia, la prima parte del concerto, completata con la ballad Riverman e dalla danzereccia Ballad Of The Mighty I, è un sunto della nuova vita di Noel, lontano dalle sonorità che hanno conquistato schiere di adepti in tutto il mondo. I religiosi sing along iniziano solo qualche istante più tardi, con If I Had The Gun e Dream on, brani scritti da Gallagher nei giorni in cui gli Oasis iniziavano a tramontare e per questo dritti come una freccia al cuore dei nostalgici. Un esercito di telefonini si solleva, Noel sembra divertito dal pubblico 2.0, che al posto della pinta innalza il cellulare, ma il duetto tra l’artista sul palco e le voci all’unisono in platea è lo stesso di sempre.
Basta una sola frase e il cuore dei presenti si ferma: «Ciao Milano, is there any Oasis fan here?», il boato è quello dei tempi d’oro. Il Fabrique non sarà Knebworth, ma le dimensioni del locale sono perfette per l’occhiolino con cui Noel ammicca ai fedeli, ancora in apnea e sull’orlo di una crisi di pianto non appena risuonano le prime note di Little By Little. Fra il delirio collettivo non sembra passato un solo secondo dallo scioglimento della band e, neanche il tempo di immolare le corde vocali sull’ultimo ‘Why am I really here?’, che il coro “Oa-si-s-Oa-si-s” arriva come uno tsunami, seguito a ruota da The Importance Of Being Idle e dal secondo gin tonic. La festa del britpop si sta trasformando in un baccanale.
E sarà per l’alcol che inizia a farsi sentire, o per il fianco scoperto del pubblico alla nostalgia canaglia, che le prime lacrime si iniziano a intravedere su qualche viso tra quelli in platea non appena Noel, da solo sul palco con la sua Gibson J200, attacca Dead In The Water, bonus track di Who Built The Moon? ma che più Oasis non si può. Il silenzio è lo stesso che accompagnava The Chief nei primi tour solisti ai tempi della band, perché quando Noel va in acustico non ce n’è per nessuno.
La ‘beatlesiana’ Be Careful What You Wish For e l’ultimo singolo She Taught Me How To Fly – “This is for the ladies“, introduce il vecchio marpione sul palco – riportano la folla nel caleidoscopico cosmic pop sfoggiato da Noel sull’ultimo lavoro in studio, magistralmente realizzato dalla band sul palco – «ricrearlo con una cazzo di chitarra sarà fottutamente difficile», ci aveva raccontato Noel a Londra, nei giorni in cui iniziava le prove del tour. Infatti, se gli Oasis, soprattuto nei primi anni, suonavano sempre più distorti del necessario, la parola chiave per comprendere la nuova direzione High Flying Birds è “ordine”. Ogni assolo, ogni sustain, ogni effetto sugli organi è perfettamente studiato, ogni brano composto su misura per la voce di Noel, senza più preoccuparsi se la sgolata del fratello non riesce a raggiungere gli acuti. Il progetto High Flying Birds, infatti, non rappresenta solo la pace personale del maggiore dei due Gallagher dopo che la Ferrari fuori controllo degli Oasis si è andata a schiantare, ma la nuova band è anzitutto una squadra agli ordini del capo, in cui tutto suona come deve e non c’è bisogno di smezzarsi i riflettori.
«Ormai sembra una versione psichedelica degli U2», commenta una ragazza parlando del nuovo suono abbracciato da Noel per l’ultimo disco. Un’affermazione che, se Liam fosse stato presente, probabilmente le sarebbe valsa una stretta di mano da parte di Our Kid. Affermazione, tuttavia, subito ingoiata: Noel torna a imbracciare la chitarra acustica e colpisce implacabile allo stomaco con la doppietta Half The World Away/ Wonderwall. Si salvi chi può: la malinconia ormai è impossibile da arginare, i gin tonic pure. A suggellare il brindisi generale arriva AKA… What A Life!, e ora sembra davvero di stare in pista all’Haçienda nel ’95.
Nonostante lo struggimento per i tempi andati, però, è la suite The Right Stuff a regalare uno dei momenti più alti della serata. La perfezione degli High Flying Birds è spiazzante, la corista YSEÉ si prende la scena mentre Noel si defila, quasi la canzone fosse la sua Unfinished Sympathy e la cantante quello che Shara Nelson è per i Massive Attack. Da qui fino alla fine, il concerto diventa la glorificazione della nostalgia. Parte Go Let It Out, per l’unico momento in cui si avverte l’assenza del rasoio che Liam aveva al posto della voce negli anni di Standing On The Shoulder Of Giants. Poco male, alcuni tra il pubblico mettono le mani dietro la schiena e innalzano il mento al cielo: il gioco è fatto. «Milano non vi sento», incita Noel.
Chiusura consegnata all’immancabile trionfo di Don’t Look Back in Anger, affidata alla voce unisona del pubblico sui primi ritornelli, com’è sempre stato e sempre sarà, perché non puoi dire di aver amato gli Oasis se non sei pronto a sacrificare le corde vocali per Sally, e per Noel. C’è spazio anche per un omaggio, All You Need Is Love, e Noel esce di scena come è entrato, con la faccia di un musicista consapevole dei suoi mezzi, che non ha più niente da dimostrare a nessuno.
La sobrietà d’inizio concerto è decisamente sbiadita, e in ogni angolo del Fabrique risuonano i ritornelli di Live Forever da una parte o di Supersonic dall’altra: la canzone ieri sera compiva gli anni, in molti ci speravano. A concerto terminato ci sono alcuni tifosi interisti (ma veneti) che brindano alle gufate andate a buon fine mentre i bianconeri bevono per dimenticare la beffa di Madrid, seguita tra una canzone e l’altra. Nessuno vuole andare via, con gli steward del locale costretti ad accompagnare fuori gli ultimi nostalgici, fino all’ultimo sorso avvinghiati al passato come fosse l’ultima boa cui aggrapparsi in un oceano in cui gli Oasis non torneranno mai più. Un brindisi all’infinita sbornia del britpop, perché quella sì, non morirà mai.
Inutile soffermarsi su quanto la band sia rodata, su quanto il suono sia solido e ben calibrato – anche se un po' impastato, a tratti, nella porzione di parterre meno vicina al palco: con The Chief al timone certe cose si danno per scontate. Il maggiore dei Gallagher è tanto roboante in termini di esternazioni quanto concreto e diretto quando a parlare è la musica: lo show offerto questa sera al Fabrique è stato l'esempio di come un concerto possa ancora intrattenere senza ricorrere al doping degli effetti speciali. E' un bene, quindi, che in scaletta a fare la parte del leone sia "Who Built the Moon?", disco che per certi versi ha spiazzato i fedelissimi. Il poker d'apertura - "Fort Knox", "Holy Mountain", "Keep on Reaching" e "It's a Beautiful World" - dà subito l'indicazione di quella che sarà la cifra della serata: Gallagher non vuole né celebrarsi né celebrare la sua scrittura, ma solo prendersi quelle libertà che probabilmente negli anni addietro gli sono mancate.
Se la misura della grandezza si calcola da come si gestisce un passato importante, non ci si può che complimentare con Noel per come l'inevitabile parentesi dedicata agli Oasis si stata incastonata nella setlist: sei canzoni in tutto - "Little by Little", "The Importance of Being Idle", "Half the World Away", "Wonderwall", "Go Let It Out" e "Don't Look Back in Anger", che dopo Manchester, piaccia o meno la retorica della musica riflessa sull'attualità, la si ascolta con tutt'altre orecchie, specie se a cantartela davanti è lui - spalmate ovviamente in punti strategici del set, tra metà serata e gran finale, fanno la felicità dei nostalgici – e sono tanti: li si riconosceva dallo smartphone sguainato in modalità videocamera sui classici, e sintonizzato su Juventus / Real Madrid durante le altre canzoni - ma Noel non era qua per loro.
Lui, rude mancuniano, a tenere la nostalgia a distanza di sicurezza è bravo, forse anche troppo per una buona fetta di pubblico, ma tant'è: non avrebbe potuto fare altrimenti. Perché al di là del retaggio, dell'inevitabile affetto di chi i gloriosi anni del britpop li ha vissuti in diretta, la raison d'être di uno spettacolo di Noel Gallagher nell'anno domini 2018 è solamente una: tentare di rendere ancora interessante e piacevole una canzone, suonata senza fronzoli o patetici ammiccamenti alla moda del momento. Lui, che ormai ha cinquant'anni e - per fortuna sua e nostra - nessuna voglia di seconde o terze giovinezze, lo chiama pop, ma l'etichetta ha poca importanza: finché continuerà a fare il cazzo che gli pare, noi continueremo a divertirci. Senza pretese di chissà che epifanie o esperienze totalizzanti, perché come dicevano dei buoni amici dei suoi idoli – questi ultimi citati nel finale con una rispettosa rilettura di “All You Need Is Love” - "it's only rock'n'roll". E tanto basta.
(dp)
SCALETTA:
Fort Knox
Holy Mountain
Keep on Reaching
It's a Beautiful World
In the Heat of the Moment
Riverman
Ballad of the Mighty I
If I Had a Gun...
Dream On
Little by Little (Oasis)
The Importance of Being Idle (Oasis)
Dead in the Water
Be Careful What You Wish For
She Taught Me How to Fly
Half the World Away (Oasis)
Wonderwall (Oasis)
AKA... What a Life!
BIS:
The Right Stuff
Go Let It Out (Oasis)
Don't Look Back in Anger (Oasis)
All You Need Is Love (Beatles)
(Rockol.it)
Ieri cadeva un anniversario particolare, una ricorrenza che di certo non sarà sfuggita alla frangia più ‘radicale’ presente al Fabrique, tutti quei “Med for it” che attendevano con ansia quasi religiosa l’arrivo sul palco di ‘The Chief’ Noel Gallagher. Era l’11 aprile, ma del 1994, una band di underdog rubati al cantiere si presentava sulle scene con un singolo improvvisato, un biglietto da visita che già in quel suo titolo ‘supersonico’ racchiudeva l’attitudine hooligana che, negli anni successivi, avrebbe gonfiato le tasche dei quotidiani britannici, tra risse con ultras rivali e sbottate cui il miglior titolista del Daily Mail non avrebbe saputo aggiungere nulla di meglio. Un quo nihil maius cogitari possit del cafone da pub, preso per il bavero della tuta adidas e gettato su un palco, ancora ubriaco, se non peggio.
Sono passati più di vent’anni da quei due adorabili cazzoni raccontati dal docu-film Supersonic, Noel è ormai un sobrio padre di famiglia, Liam – in teoria – pure, lo stesso vale per il pubblico che, dell’anthem “I’m feeling Supersonic, give me a gin and tonic“, aveva fatto uno stile di vita; ormai l’età avanza e andare in ufficio in hangover è sempre più eroico. Sarà per questo, forse, che ieri la fila di gente per entrare al Fabrique era estremamente composta, forse troppo, nonostante il diluvio universale che si stava abbattendo su Milano. Pochi tagli di capelli mods, pochissimi cori dei soliti “Soooo Sally can’t wait….” e via dicendo. Tuttavia, bastano i primi accenni di Fort Knox, lo strumentale con cui Noel apre il concerto, per cambiare immediatamente le carte in tavola, perché l’atmosfera è la stessa con cui Fuckin’ In the Bushes introduceva sul palco gli Oasis. Tolte le giacche a vento, iniziano a spuntare come funghi le casacche azzurre del Manchester City e il nome sulle spalle non è quello di Kun Agüero, ma Gallagher.
Gli High Flying Birds sul palco sono otto, compresa la ormai nota suonatrice di forbici e gli ex compagni di scuderia Chris Sharrock e Gem Archer, quasi irriconoscibile dietro gli occhiali scuri e i capelli ormai brizzolati. Le tre coriste danno alla voce di Noel l’impatto giusto e il pubblico è caldissimo quando parte il riff di Holy Mountain: anche se il singolo è tratto dall’ultimo album solista uscito lo scorso novembre, già si intravede il varco temporale che dal 2018 porterà dritti al ’96, accompagnati dal vecchio amico gin tonic con buona pace per l’ufficio il giorno dopo. La festa regale del britpop parte verso la Madchester dei primi 90’s, tra la cassa dritta di Keep On Reaching e il loop di basso di It’s a Beautiful World, per poi infiammarsi con In The Heat Of The Moment, una fra le hit più trascinanti del Noel solista. Dalla platea cominciano a intonare l’immancabile ‘Who the fuck are Man United’, inno dei tifosi blues del City, mentre sul palco, alle spalle di Noel, campeggia ben in vista lo stendardo della squadra del cuore.
Tuttavia, la prima parte del concerto, completata con la ballad Riverman e dalla danzereccia Ballad Of The Mighty I, è un sunto della nuova vita di Noel, lontano dalle sonorità che hanno conquistato schiere di adepti in tutto il mondo. I religiosi sing along iniziano solo qualche istante più tardi, con If I Had The Gun e Dream on, brani scritti da Gallagher nei giorni in cui gli Oasis iniziavano a tramontare e per questo dritti come una freccia al cuore dei nostalgici. Un esercito di telefonini si solleva, Noel sembra divertito dal pubblico 2.0, che al posto della pinta innalza il cellulare, ma il duetto tra l’artista sul palco e le voci all’unisono in platea è lo stesso di sempre.
Basta una sola frase e il cuore dei presenti si ferma: «Ciao Milano, is there any Oasis fan here?», il boato è quello dei tempi d’oro. Il Fabrique non sarà Knebworth, ma le dimensioni del locale sono perfette per l’occhiolino con cui Noel ammicca ai fedeli, ancora in apnea e sull’orlo di una crisi di pianto non appena risuonano le prime note di Little By Little. Fra il delirio collettivo non sembra passato un solo secondo dallo scioglimento della band e, neanche il tempo di immolare le corde vocali sull’ultimo ‘Why am I really here?’, che il coro “Oa-si-s-Oa-si-s” arriva come uno tsunami, seguito a ruota da The Importance Of Being Idle e dal secondo gin tonic. La festa del britpop si sta trasformando in un baccanale.
E sarà per l’alcol che inizia a farsi sentire, o per il fianco scoperto del pubblico alla nostalgia canaglia, che le prime lacrime si iniziano a intravedere su qualche viso tra quelli in platea non appena Noel, da solo sul palco con la sua Gibson J200, attacca Dead In The Water, bonus track di Who Built The Moon? ma che più Oasis non si può. Il silenzio è lo stesso che accompagnava The Chief nei primi tour solisti ai tempi della band, perché quando Noel va in acustico non ce n’è per nessuno.
La ‘beatlesiana’ Be Careful What You Wish For e l’ultimo singolo She Taught Me How To Fly – “This is for the ladies“, introduce il vecchio marpione sul palco – riportano la folla nel caleidoscopico cosmic pop sfoggiato da Noel sull’ultimo lavoro in studio, magistralmente realizzato dalla band sul palco – «ricrearlo con una cazzo di chitarra sarà fottutamente difficile», ci aveva raccontato Noel a Londra, nei giorni in cui iniziava le prove del tour. Infatti, se gli Oasis, soprattuto nei primi anni, suonavano sempre più distorti del necessario, la parola chiave per comprendere la nuova direzione High Flying Birds è “ordine”. Ogni assolo, ogni sustain, ogni effetto sugli organi è perfettamente studiato, ogni brano composto su misura per la voce di Noel, senza più preoccuparsi se la sgolata del fratello non riesce a raggiungere gli acuti. Il progetto High Flying Birds, infatti, non rappresenta solo la pace personale del maggiore dei due Gallagher dopo che la Ferrari fuori controllo degli Oasis si è andata a schiantare, ma la nuova band è anzitutto una squadra agli ordini del capo, in cui tutto suona come deve e non c’è bisogno di smezzarsi i riflettori.
«Ormai sembra una versione psichedelica degli U2», commenta una ragazza parlando del nuovo suono abbracciato da Noel per l’ultimo disco. Un’affermazione che, se Liam fosse stato presente, probabilmente le sarebbe valsa una stretta di mano da parte di Our Kid. Affermazione, tuttavia, subito ingoiata: Noel torna a imbracciare la chitarra acustica e colpisce implacabile allo stomaco con la doppietta Half The World Away/ Wonderwall. Si salvi chi può: la malinconia ormai è impossibile da arginare, i gin tonic pure. A suggellare il brindisi generale arriva AKA… What A Life!, e ora sembra davvero di stare in pista all’Haçienda nel ’95.
Nonostante lo struggimento per i tempi andati, però, è la suite The Right Stuff a regalare uno dei momenti più alti della serata. La perfezione degli High Flying Birds è spiazzante, la corista YSEÉ si prende la scena mentre Noel si defila, quasi la canzone fosse la sua Unfinished Sympathy e la cantante quello che Shara Nelson è per i Massive Attack. Da qui fino alla fine, il concerto diventa la glorificazione della nostalgia. Parte Go Let It Out, per l’unico momento in cui si avverte l’assenza del rasoio che Liam aveva al posto della voce negli anni di Standing On The Shoulder Of Giants. Poco male, alcuni tra il pubblico mettono le mani dietro la schiena e innalzano il mento al cielo: il gioco è fatto. «Milano non vi sento», incita Noel.
Chiusura consegnata all’immancabile trionfo di Don’t Look Back in Anger, affidata alla voce unisona del pubblico sui primi ritornelli, com’è sempre stato e sempre sarà, perché non puoi dire di aver amato gli Oasis se non sei pronto a sacrificare le corde vocali per Sally, e per Noel. C’è spazio anche per un omaggio, All You Need Is Love, e Noel esce di scena come è entrato, con la faccia di un musicista consapevole dei suoi mezzi, che non ha più niente da dimostrare a nessuno.
La sobrietà d’inizio concerto è decisamente sbiadita, e in ogni angolo del Fabrique risuonano i ritornelli di Live Forever da una parte o di Supersonic dall’altra: la canzone ieri sera compiva gli anni, in molti ci speravano. A concerto terminato ci sono alcuni tifosi interisti (ma veneti) che brindano alle gufate andate a buon fine mentre i bianconeri bevono per dimenticare la beffa di Madrid, seguita tra una canzone e l’altra. Nessuno vuole andare via, con gli steward del locale costretti ad accompagnare fuori gli ultimi nostalgici, fino all’ultimo sorso avvinghiati al passato come fosse l’ultima boa cui aggrapparsi in un oceano in cui gli Oasis non torneranno mai più. Un brindisi all’infinita sbornia del britpop, perché quella sì, non morirà mai.
(RollingStone.it)
Ieri cadeva un anniversario particolare, una ricorrenza che di certo non sarà sfuggita alla frangia più ‘radicale’ presente al Fabrique, tutti quei “Med for it” che attendevano con ansia quasi religiosa l’arrivo sul palco di ‘The Chief’ Noel Gallagher. Era l’11 aprile, ma del 1994, una band di underdog rubati al cantiere si presentava sulle scene con un singolo improvvisato, un biglietto da visita che già in quel suo titolo ‘supersonico’ racchiudeva l’attitudine hooligana che, negli anni successivi, avrebbe gonfiato le tasche dei quotidiani britannici, tra risse con ultras rivali e sbottate cui il miglior titolista del Daily Mail non avrebbe saputo aggiungere nulla di meglio. Un quo nihil maius cogitari possit del cafone da pub, preso per il bavero della tuta adidas e gettato su un palco, ancora ubriaco, se non peggio.
Gli High Flying Birds sul palco sono otto, compresa la ormai nota suonatrice di forbici e gli ex compagni di scuderia Chris Sharrock e Gem Archer, quasi irriconoscibile dietro gli occhiali scuri e i capelli ormai brizzolati. Le tre coriste danno alla voce di Noel l’impatto giusto e il pubblico è caldissimo quando parte il riff di Holy Mountain: anche se il singolo è tratto dall’ultimo album solista uscito lo scorso novembre, già si intravede il varco temporale che dal 2018 porterà dritti al ’96, accompagnati dal vecchio amico gin tonic con buona pace per l’ufficio il giorno dopo. La festa regale del britpop parte verso la Madchester dei primi 90’s, tra la cassa dritta di Keep On Reaching e il loop di basso di It’s a Beautiful World, per poi infiammarsi con In The Heat Of The Moment, una fra le hit più trascinanti del Noel solista. Dalla platea cominciano a intonare l’immancabile ‘Who the fuck are Man United’, inno dei tifosi blues del City, mentre sul palco, alle spalle di Noel, campeggia ben in vista lo stendardo della squadra del cuore.
Tuttavia, la prima parte del concerto, completata con la ballad Riverman e dalla danzereccia Ballad Of The Mighty I, è un sunto della nuova vita di Noel, lontano dalle sonorità che hanno conquistato schiere di adepti in tutto il mondo. I religiosi sing along iniziano solo qualche istante più tardi, con If I Had The Gun e Dream on, brani scritti da Gallagher nei giorni in cui gli Oasis iniziavano a tramontare e per questo dritti come una freccia al cuore dei nostalgici. Un esercito di telefonini si solleva, Noel sembra divertito dal pubblico 2.0, che al posto della pinta innalza il cellulare, ma il duetto tra l’artista sul palco e le voci all’unisono in platea è lo stesso di sempre.
Basta una sola frase e il cuore dei presenti si ferma: «Ciao Milano, is there any Oasis fan here?», il boato è quello dei tempi d’oro. Il Fabrique non sarà Knebworth, ma le dimensioni del locale sono perfette per l’occhiolino con cui Noel ammicca ai fedeli, ancora in apnea e sull’orlo di una crisi di pianto non appena risuonano le prime note di Little By Little. Fra il delirio collettivo non sembra passato un solo secondo dallo scioglimento della band e, neanche il tempo di immolare le corde vocali sull’ultimo ‘Why am I really here?’, che il coro “Oa-si-s-Oa-si-s” arriva come uno tsunami, seguito a ruota da The Importance Of Being Idle e dal secondo gin tonic. La festa del britpop si sta trasformando in un baccanale.
E sarà per l’alcol che inizia a farsi sentire, o per il fianco scoperto del pubblico alla nostalgia canaglia, che le prime lacrime si iniziano a intravedere su qualche viso tra quelli in platea non appena Noel, da solo sul palco con la sua Gibson J200, attacca Dead In The Water, bonus track di Who Built The Moon? ma che più Oasis non si può. Il silenzio è lo stesso che accompagnava The Chief nei primi tour solisti ai tempi della band, perché quando Noel va in acustico non ce n’è per nessuno.
La ‘beatlesiana’ Be Careful What You Wish For e l’ultimo singolo She Taught Me How To Fly – “This is for the ladies“, introduce il vecchio marpione sul palco – riportano la folla nel caleidoscopico cosmic pop sfoggiato da Noel sull’ultimo lavoro in studio, magistralmente realizzato dalla band sul palco – «ricrearlo con una cazzo di chitarra sarà fottutamente difficile», ci aveva raccontato Noel a Londra, nei giorni in cui iniziava le prove del tour. Infatti, se gli Oasis, soprattuto nei primi anni, suonavano sempre più distorti del necessario, la parola chiave per comprendere la nuova direzione High Flying Birds è “ordine”. Ogni assolo, ogni sustain, ogni effetto sugli organi è perfettamente studiato, ogni brano composto su misura per la voce di Noel, senza più preoccuparsi se la sgolata del fratello non riesce a raggiungere gli acuti. Il progetto High Flying Birds, infatti, non rappresenta solo la pace personale del maggiore dei due Gallagher dopo che la Ferrari fuori controllo degli Oasis si è andata a schiantare, ma la nuova band è anzitutto una squadra agli ordini del capo, in cui tutto suona come deve e non c’è bisogno di smezzarsi i riflettori.
«Ormai sembra una versione psichedelica degli U2», commenta una ragazza parlando del nuovo suono abbracciato da Noel per l’ultimo disco. Un’affermazione che, se Liam fosse stato presente, probabilmente le sarebbe valsa una stretta di mano da parte di Our Kid. Affermazione, tuttavia, subito ingoiata: Noel torna a imbracciare la chitarra acustica e colpisce implacabile allo stomaco con la doppietta Half The World Away/ Wonderwall. Si salvi chi può: la malinconia ormai è impossibile da arginare, i gin tonic pure. A suggellare il brindisi generale arriva AKA… What A Life!, e ora sembra davvero di stare in pista all’Haçienda nel ’95.
Nonostante lo struggimento per i tempi andati, però, è la suite The Right Stuff a regalare uno dei momenti più alti della serata. La perfezione degli High Flying Birds è spiazzante, la corista YSEÉ si prende la scena mentre Noel si defila, quasi la canzone fosse la sua Unfinished Sympathy e la cantante quello che Shara Nelson è per i Massive Attack. Da qui fino alla fine, il concerto diventa la glorificazione della nostalgia. Parte Go Let It Out, per l’unico momento in cui si avverte l’assenza del rasoio che Liam aveva al posto della voce negli anni di Standing On The Shoulder Of Giants. Poco male, alcuni tra il pubblico mettono le mani dietro la schiena e innalzano il mento al cielo: il gioco è fatto. «Milano non vi sento», incita Noel.
Chiusura consegnata all’immancabile trionfo di Don’t Look Back in Anger, affidata alla voce unisona del pubblico sui primi ritornelli, com’è sempre stato e sempre sarà, perché non puoi dire di aver amato gli Oasis se non sei pronto a sacrificare le corde vocali per Sally, e per Noel. C’è spazio anche per un omaggio, All You Need Is Love, e Noel esce di scena come è entrato, con la faccia di un musicista consapevole dei suoi mezzi, che non ha più niente da dimostrare a nessuno.
La sobrietà d’inizio concerto è decisamente sbiadita, e in ogni angolo del Fabrique risuonano i ritornelli di Live Forever da una parte o di Supersonic dall’altra: la canzone ieri sera compiva gli anni, in molti ci speravano. A concerto terminato ci sono alcuni tifosi interisti (ma veneti) che brindano alle gufate andate a buon fine mentre i bianconeri bevono per dimenticare la beffa di Madrid, seguita tra una canzone e l’altra. Nessuno vuole andare via, con gli steward del locale costretti ad accompagnare fuori gli ultimi nostalgici, fino all’ultimo sorso avvinghiati al passato come fosse l’ultima boa cui aggrapparsi in un oceano in cui gli Oasis non torneranno mai più. Un brindisi all’infinita sbornia del britpop, perché quella sì, non morirà mai.
(HeyJude.it)
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