lunedì 6 giugno 2022

La recensione di Repubblica: Liam Gallagher torna a Knebworth per 170mila tra vecchi e nuovi fan

Il cantante si esibisce nel parco che 26 anni fa fece la storia degli Oasis per due date sold out. Come allora sul palco basta la sua presenza statica, immobile, papale e mani dietro la schiena impartisce il verbo

Mentre a Buckingham Palace sfilano i sudditi di Sua Maestà per il Giubileo di platino di regina Elisabetta, qualche chilometro a nord di Londra l'Inghilterra rende omaggio al suo re. Come Liam Gallagher sia tornato a essere la rockstar più influente del Regno Unito è difficile da dire, saranno i tre fortunati dischi solisti e una voce ritrovata che hanno risvegliato un fervore rimasto dormiente in attesa di un motivo per esplodere, sarà il sorprendente seguito di fan della nuova generazione che quando gli Oasis dominavano le classifiche nemmeno erano stati concepiti che rende Knebworth 2022 molto più di un revival per nostalgici. Ma nessuno pochi anni fa avrebbe immaginato che il 3 e il 4 giugno il minore dei Gallagher si sarebbe trovato di nuovo davanti a 170mila persone a mandare due volte sold out Knebworth, dove nell'agosto 1996 gli Oasis tennero i concerti più importanti della carriera. Magari per una reunion, ma da solista? Impossibile. E invece eccolo qua, come 26 anni fa, in luoghi iconici della storia degli Oasis e del Britpop: la stazione di Stevenage dove parte la processione verso la Knebworth House, quell'enorme prato ondulato e in pendenza con là in fondo il palco. E lui immobile, ieratico, sacrale.

Nel '96 i due live a Knebworth degli Oasis furono lo show con più paganti della storia britannica: 250mila persone in due sere, 2.6 milioni cercarono di prenotare i biglietti, il 5% della popolazione inglese. Si può azzardare che se nel '96 eri un inglese tra i 16 e i 40 anni hai tentato di andare a quei concerti. Per alcuni segnò il momento più felice della vita, per molti l'ultimo giorno spensierato prima dell'età adulta. A tutti offrì l'opportunità di sentirsi parte di qualcosa più grande di sé. Ci hanno fatto film, libri, reportage: fu lo show che sancì l'egemonia culturale del Britpop, "lo show che definì una generazione".

Oggi che quella scena non esiste più Knebworth è la celebrazione privata di Liam Gallagher e di quella generazione, che non ha mai smesso di credere in lui, e in se stessa. Ma non solo, perché a raggiungerla è quella dei loro figli, che per questioni di età un concerto degli Oasis non l'hanno mai visto ma nel 2022 sono forse la maggioranza del pubblico di Liam. Come una storia che ricomincia. E allora ri-eccolo su quel palco, cinquantenne, anche se i gruppi spalla non sono epici quanto allora e tra questi solo i Kasabian scaldano. C'è invece come nel '96 il chitarrista degli Stone Roses John Squire a raggiungerlo sul palco per Champagne Supernova: "È grazie a lui che ho formato una band", ricorda il cantante soprattutto alla sua nuova fanbase che sta studiando i classici britannici.

Per alcuni gli Oasis avrebbero dovuto sciogliersi dopo quegli show, all'apice. Mai stata un'opzione per Liam: "È sempre stata una questione di vita o morte, che avrei dovuto fare? Stare a casa a contare i soldi? Fanculo". Per questo Knebworth 2022 è la storia di una resurrezione. Solo otto anni fa il naufragio dei Beady Eye, il progetto post Oasis, meno di mille paganti all'Orion di Roma. Poi il divorzio, problemi di soldi, la depressione per un fallimento musicale che era anche umano: senza una band, senza esser una rockstar, Liam Gallagher non sentiva più di avere uno scopo al mondo. Nel 2017 la svolta: una nuova manager e compagna, una figlia ritrovata, un disco solista di successo. Vederlo nel weekend su quel palco permette a tutti di credere nelle seconde chance, e che se entri a fondo nel cuore di qualcuno ci rimarrai per sempre, nonostante gli errori.  

Nel weekend Londra è un mare che scorre tra bandierine britanniche e stendardi dei reali e il flusso incrociato di fedeli gallagheriani tra chi va alla data del venerdì e chi aspetta quella del sabato. Due tribù che si mescolano tra vie e pub della City, tra tagli di capelli da cosplayer di Gallagher, magliette Oasis e Pretty Green, la linea di moda da lui fondata. Qui tutti parlano come lui, ripetendo cose come "Biblical", "Celestial", "C'mon you know", slogan noti a chi lo segue sui social divenuti parole in codice per riconoscersi tra membri della stessa setta.

E qui tutti lo chiamano per nome, Liam e basta, come uno di famiglia. E forse lo è, non solo per l'immagine di rockstar sbruffona ma vicina alla sua gente che s'è creato in questa fase di carriera, forse l'unico big di cui tra sproloqui, strafalcioni e insulti siamo certi gestisca di persona il profilo Twitter. Ma soprattutto perché è parte delle loro vite, è stato compagno dei sabato sera selvaggi e psicologo nei giorni di depressione, testimone di nozze ai matrimoni e abbraccio ai funerali. "Gli Oasis non sono una band, sono una generazione, sono tutto quel che ci rappresenta", giurano i vecchi fan tra la folla. Quelli più giovani, possono dire lo stesso tramite Liam. Perché gli Oasis per tutti quanti i presenti su quel prato sono Liam, inutile girarci attorno. Noel ha scritto le canzoni, ma Liam ha dato loro un'anima che fa la differenza tra un grande gruppo e uno capace di cambiarti la vita. Il Knebworth del '96 celebrò l'epopea di cinque ragazzi della lower class mancuniana in un anno e mezzo passati dalle case popolari al più grande live della storia inglese. Ma si vestivano come loro, si comportavano come loro, frequentavano i loro stessi pub, parlavano a loro: i giovani adulti della classe operaia, i disoccupati e i rifiutati. E se per la sua gente Noel ha tradito, Liam è ancora il working class hero del rock britannico, in un'alchimia col pubblico che non ha eguali.

Facile magari trovarla coi classici del repertorio Oasis con cui lo show parte a raffica sparando subito carichi pesanti, come la Rock'n'roll Star sintesi dell'iconografia della band e incredibilmente esclusa dalla setlist 26 anni fa, o la sequenza mozzafiato di brani cult con cui si chiude. Meno ovvio riuscirci coi brani da solista che ormai sono stati mandati a memoria da tutti e hanno arruolato alla causa quella nuova generazione di fedeli gallagheriani. L'essenzialità anni '90 della scenografia, qualche luce e il maxischermo, è lì a ricordare che si è di fronte a una delle ultime icone rock. Portare sul palco macchinari alla James Bond stile Coldplay o Muse non è mai mai servito agli Oasis, non serve a Liam, basta la sua presenza statica, immobile, papale. Come sempre, si muove solo per salire sul palco, si pianta dietro al microfono, litiga col fonico per avere più volume nella voce e mani dietro la schiena impartisce il verbo. "Suonavamo negli stadi come fossimo al pub, eravamo la più grande band del mondo e non ce ne fregava niente", raccontava degli Oasis. E se Noel ha scelto altre strade, il pop, la pacatezza, per Liam è ancora la questione di vita o di morte di allora. Mentre sputa i versi finali di Live forever lo fa come fosse l'ultima cosa che farà nella vita. E anche se è questo modo di cantare che gli distrusse le corde vocali, è simbolo della connessione coi suoi fan: essere qui, ora, assieme, è la sola cosa che conta. Poi se deve finire, finirà. Non fosse stato per questo, Liam Gallagher sarebbe stato solo un cantante e gli Oasis solo una band. Ma tra gli sguardi estasiati di Knebworth, gli sconosciuti che si abbracciano, ridono, piangono assieme, persone che nulla hanno in comune ma per 100 minuti sono un'anima sola, è evidente che ci sia molto, troppo, di più.

Luca Bortolotti

Source: La Repubblica





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