Tutto merito di Mr. Walsh. Se nei lontani anni Settanta quel professore di Manchester non avesse portato una decina di ragazzini al vecchio Maine Road (l’ex stadio del City, ora demolito), forse Liam Gallagher (e suo fratello Noel) oggi sarebbe “banalmente” uno dei tanti tifosi dello United, alle prese con i dolori del dopo Ferguson. Invece, sempre con il fratello Noel, è diventato il tifoso più illustre del Manchester City di Guardiola. «Siamo i campioni d’Inghilterra, amico», ci dice orgoglioso un pimpante Liam. Buffo cappellino da pescatore, l’ex cantante degli Oasis parla di City e Liverpool, di Mancini, Del Piero e Balotelli, ma anche del suo disco appena uscito, di un film sulla sua carriera da solista, di Brexit e tanto altro. È una rockstar che sembra avere messo da parte il suo lato più scontroso e in guerra col mondo (soprattutto con i giornalisti) e che si presenta sereno e in pace con se stesso. Forse ha elaborato il lutto dello scioglimento degli Oasis. O forse gli fa terribilmente bene parlare di calcio e del suo Manchester City sempre più vincente.
Grande stagione, la scorsa, per il City...
«Siamo i campioni d’Inghilterra, amico. Tutti parlano della Champions League, ma a noi interessa il campionato. Non l’abbiamo vinto per tanti anni... Quando siamo usciti dalla Champions (eliminati ai quarti dal Tottenham, ndr) non ha significato molto per noi, poi abbiamo vinto la Premier League. Contava quello».
Però uscire in quel modo con il Tottenham non è stato bellissimo...
«Sì, lo so. Ma noi volevamo una sola cosa: diventare campioni d’Inghilterra. La Champions la può vincere il Liverpool, lo United, chiunque... In Champions siamo ancora un po’ ingenui, inesperti. La vinceremo, ma è una cosa diversa. È una competizione a eliminazione diretta, basata molto sulla fortuna. La Lega premia l’andamento di tutta la stagione. Se la vinci sei davvero la squadra migliore. E noi siamo la squadra migliore d’Inghilterra».
Come è nata la sua passione per il City in una città dominata dallo United?
«In famiglia i miei parenti erano tutti per lo United. A scuola invece avevamo questo insegnante, Mr. Walsh, era un tifoso del City e portò una decina di bambini al Maine Road. Avevo circa 8 anni. Erano gli anni del portiere Joe Corrigan, di Steve Daley, Peter Barnes ... Così è nata la passione. In quegli anni non vincevamo niente, ma sapevo che sarebbero arrivati tempi migliori».
È stata dura essere tifosi del City negli anni vincenti dello United di Ferguson?
«Oh, è stato un inferno. Me ne sono dovuto scappare a Londra. Intendiamoci, massimo rispetto per lo United. Ferguson è stato un grandissimo manager, aveva una squadra pazzesca e ha vinto tutto. Ma ora tocca a noi...».
Come vede questa stagione della sua squadra del cuore?
«Dipende da tanti fattori, dal calendario, da come inizi la stagione, dagli infortuni. Però possiamo ripeterci. Il Liverpool sarà ancora lì a farci pressione, poi occhio a Tottenham, Arsenal, Wolverhampton. Non lo United: con Ferguson hanno raggiunto il top, ci vorrà molto perché tornino su quei livelli. Detto questo, credo che il City sia su un altro livello. Non è perfetto, possiamo perdere come chiunque, ma credo che siamo troppo forti per tutti. E abbiamo meno pressione rispetto a United e Liverpool. Quando vinciamo è sempre come se avessimo vinto la lotteria. A Liverpool e allo United i tifosi pensano che debbano vincere sempre e la pressione arriva sui giocatori».
Di Guardiola cosa pensa?
«Ragiona in maniera diversa dagli altri. Ci ha fatto fare il salto di qualità definitivo».
La Premier League è il campionato più bello del mondo, la nazionale inglese spesso sulla carta è fortissima ma poi non vince mai. Come mai?
«Anche qui troppa pressione. I media inglesi continuano a vivisezionare e criticare la squadra, in Italia o in Spagna la sostengono. Sui giocatori c’è quindi troppa pressione. Poi alla fine alla prova del campo qualcuno di loro non si rivela all’altezza e dimostriamo di non essere così forti come si pensa. Però con Gareth Southgate le cose stanno comunque andando meglio».
Ha seguito i Mondiali femminili?
«Poco purtroppo, ero in giro a fare concerti. Però quel poco che ho visto mi è piaciuto. C’è molto fair play. La mia compagna tra l’altro giocava nell’Arsenal femminile...».
Mancini sta facendo bene come c.t. dell’Italia. Che ricordo ha di lui quando allenava il City?
«L’ho incontrato poche volte ma mi piace, una bella persona. E ha avuto il grande merito di sbloccarci e farci cominciare a vincere. Mi ricordo la partita decisiva con il QPR, un terribile primo tempo, poi il trionfo nel finale, ma che sofferenza... (nel 2012 il City tornò a vincere il titolo nazionale dopo 44 anni battendo 3-2 il già retrocesso QPR all’ultima giornata. Il gol decisivo arrivò al 92’. In caso di pareggio il titolo sarebbe andato allo United, ndr)».
E Balotelli?
«Lo adoro. Non l’ho mai incontrato di persona, ma mi piace. È matto. Mi piaceva anche Cantona. Mi sono sempre piaciuti i giocatori un po’ folli, fuori dagli schemi, come loro. O come Di Canio. Non ne puoi avere undici di giocatori così in squadra, però uno sì, è utile e divertente».
Lei è anche amico di Alex Del Piero...
«Ho giocato con lui una partita di beneficenza a Torino. Mi piace molto anche lui. Ci vediamo poco, non siamo proprio amici, ma se lo incontro lo saluto volentieri».
Non le sembra che rispetto al passato il calcio inglese, sempre bellissimo, abbia perso un po’ di passione? Ci riferiamo al contorno, i tifosi, gli stadi, l’atmosfera ...
«Non ci vado spesso. Andavo al Maine Road. Ora sembra di essere a teatro. Tutti seduti. Dovrebbero creare, in sicurezza, dei settori da diecimila posti in piedi per riportare un po’ di atmosfera. Non è possibile che ora non si possa fare niente, gridare, alzarsi ... Il calcio è passione. Io non vado più per questo. Non puoi più godertela. È come se qualcuno abbia succhiato via la vita dagli stadi. Meglio guardarsi la partita in tv...».
Parliamo di musica. È un periodo molto impegnativo per lei: è appena uscito il nuovo disco, c’è un docufilm, la tournée ...
«Mi piace essere impegnato. Mi piace cantare per la gente. Sono fortunato a fare questo lavoro. Ho 46 anni, faccio questo da 20 anni... È appena uscito As it was, un documentario sulla mia attività di solista dopo lo scioglimento degli Oasis. E ora ecco Why me? Why not., il nuovo disco. E sto facendo concerti...».
Quest’estate ha cantato anche a Barolo ...
«Wow, posto magnifico. È stata una serata magica: luogo bellissimo, noi abbiamo suonato bene, il pubblico era fantastico. Non sempre queste tre cose si fondono così bene nella stessa sera».
Ci parli del documentario, As it was.
«Non è solo sull’ultimo tour. Parla un po’ di Oasis, non troppo. E poi ci sono immagini sulla fine della band e poi la nascita dei Beady Eye (band fondata da Liam Gallagher nel 2009 e sciolta nel 2014, ndr) e sulla lavorazione del mio primo disco solista. Ma non solo musica. Ci sono io che bevo, fumo, mi lamento… ».
In una delle nuove canzoni, Shockwave, lei canta “hallelujah, I feel free”. Parla di sé? Si sente più libero ora?
«Sì, mi sento libero. Non è che in passato non lo fossi. Era bello con gli Oasis, ma era chiaro chi comandava.
Era mio fratello Noel e decideva lui cosa fare. Lo si è visto quando ha sciolto la band. Ora ho una splendida compagna, dei bellissimi bambini, posso lavorare con autori diversi e poi suonare per la gente ... Mi sento assolutamente libero come mai prima d’ora».
In The river, il secondo singolo tratto dal nuovo disco, lei invita le nuove generazioni a combattere ...
«Non parlo davvero di combattere, dico che se non sei felice di una situazione devi svegliarti e provare a cambiarla. Le nuove generazioni mi sembrano troppo concentrate sulla tecnologia e sul possesso degli oggetti. La vita reale non è quella. E se la vita reale non ti piace, prova a cambiarla. Mia madre, quando eravamo piccoli, faceva tre lavori: io non volevo fare la stessa fine e ho provato a realizzare qualcosa di più che ci rendesse orgogliosi. Ma devi darti da fare. Ora cercano tutti di diventare famosi. Famosi per cosa? Perché hanno un nasino rifatto e delle labbra carine? Si diventa famosi se si ha talento e lavorando duro».
In The river ci sono anche riferimenti alla situazione politica inglese e alla Brexit?
«Qualcosa sì, ma a dir la verità non so molto delle questioni della Brexit e dell’Unione Europea. Rispetto entrambe le posizioni. Se penso a qualcosa di politico penso a tutti questi accoltellamenti che avvengono a Londra. Dovrebbero esserci più poliziotti nelle strade. Quello che sta avvenendo è terribile».
Il nuovo disco non segna un cambiamento radicale rispetto a quello precedente, As you were, ma un passo avanti. La voce è sempre più bella. Le canzoni sono di nuovo scritte con Greg Kustin e Andrew Wyatt.
«Sì, vero. È un grande disco. Mi sono fatto aiutare di più nella scrittura dei testi. Io sono più un cantante che uno scrittore di canzoni. Sono venuto a patti con questa cosa. Se devo cantare non accetto lezioni da nessuno, ma come scrittore conosco i miei limiti. Ho scritto meno».
Qual è il segreto della sua voce?
«Ci sto attento. Non fumo nei giorni del concerto e non bevo caffè né mangio latticini. Quando sono in concerto solo acqua, acqua, acqua…».
Nel disco, nella traccia One of us, suona anche suo figlio Gene. Come se l’è cavata?
«È un bravo batterista. Ha diciassette anni. Stavamo registrando nello studio di Londra su un pezzo senza batteria, perché il batterista non c’era. A un certo punto abbiamo pensato di aggiungerci i bonghi. L’ho chiamato e lui ha dato il suo contributo. È stato bello».
Insomma, la dinastia dei Gallagher continua ...
(da SportWeek, settimanale de La Gazzetta dello Sport, in edicola dal 28 settembre 2019)
Grande stagione, la scorsa, per il City...
«Siamo i campioni d’Inghilterra, amico. Tutti parlano della Champions League, ma a noi interessa il campionato. Non l’abbiamo vinto per tanti anni... Quando siamo usciti dalla Champions (eliminati ai quarti dal Tottenham, ndr) non ha significato molto per noi, poi abbiamo vinto la Premier League. Contava quello».
Però uscire in quel modo con il Tottenham non è stato bellissimo...
«Sì, lo so. Ma noi volevamo una sola cosa: diventare campioni d’Inghilterra. La Champions la può vincere il Liverpool, lo United, chiunque... In Champions siamo ancora un po’ ingenui, inesperti. La vinceremo, ma è una cosa diversa. È una competizione a eliminazione diretta, basata molto sulla fortuna. La Lega premia l’andamento di tutta la stagione. Se la vinci sei davvero la squadra migliore. E noi siamo la squadra migliore d’Inghilterra».
«In famiglia i miei parenti erano tutti per lo United. A scuola invece avevamo questo insegnante, Mr. Walsh, era un tifoso del City e portò una decina di bambini al Maine Road. Avevo circa 8 anni. Erano gli anni del portiere Joe Corrigan, di Steve Daley, Peter Barnes ... Così è nata la passione. In quegli anni non vincevamo niente, ma sapevo che sarebbero arrivati tempi migliori».
È stata dura essere tifosi del City negli anni vincenti dello United di Ferguson?
«Oh, è stato un inferno. Me ne sono dovuto scappare a Londra. Intendiamoci, massimo rispetto per lo United. Ferguson è stato un grandissimo manager, aveva una squadra pazzesca e ha vinto tutto. Ma ora tocca a noi...».
Come vede questa stagione della sua squadra del cuore?
«Dipende da tanti fattori, dal calendario, da come inizi la stagione, dagli infortuni. Però possiamo ripeterci. Il Liverpool sarà ancora lì a farci pressione, poi occhio a Tottenham, Arsenal, Wolverhampton. Non lo United: con Ferguson hanno raggiunto il top, ci vorrà molto perché tornino su quei livelli. Detto questo, credo che il City sia su un altro livello. Non è perfetto, possiamo perdere come chiunque, ma credo che siamo troppo forti per tutti. E abbiamo meno pressione rispetto a United e Liverpool. Quando vinciamo è sempre come se avessimo vinto la lotteria. A Liverpool e allo United i tifosi pensano che debbano vincere sempre e la pressione arriva sui giocatori».
Di Guardiola cosa pensa?
«Ragiona in maniera diversa dagli altri. Ci ha fatto fare il salto di qualità definitivo».
La Premier League è il campionato più bello del mondo, la nazionale inglese spesso sulla carta è fortissima ma poi non vince mai. Come mai?
«Anche qui troppa pressione. I media inglesi continuano a vivisezionare e criticare la squadra, in Italia o in Spagna la sostengono. Sui giocatori c’è quindi troppa pressione. Poi alla fine alla prova del campo qualcuno di loro non si rivela all’altezza e dimostriamo di non essere così forti come si pensa. Però con Gareth Southgate le cose stanno comunque andando meglio».
Ha seguito i Mondiali femminili?
«Poco purtroppo, ero in giro a fare concerti. Però quel poco che ho visto mi è piaciuto. C’è molto fair play. La mia compagna tra l’altro giocava nell’Arsenal femminile...».
Mancini sta facendo bene come c.t. dell’Italia. Che ricordo ha di lui quando allenava il City?
«L’ho incontrato poche volte ma mi piace, una bella persona. E ha avuto il grande merito di sbloccarci e farci cominciare a vincere. Mi ricordo la partita decisiva con il QPR, un terribile primo tempo, poi il trionfo nel finale, ma che sofferenza... (nel 2012 il City tornò a vincere il titolo nazionale dopo 44 anni battendo 3-2 il già retrocesso QPR all’ultima giornata. Il gol decisivo arrivò al 92’. In caso di pareggio il titolo sarebbe andato allo United, ndr)».
E Balotelli?
«Lo adoro. Non l’ho mai incontrato di persona, ma mi piace. È matto. Mi piaceva anche Cantona. Mi sono sempre piaciuti i giocatori un po’ folli, fuori dagli schemi, come loro. O come Di Canio. Non ne puoi avere undici di giocatori così in squadra, però uno sì, è utile e divertente».
Lei è anche amico di Alex Del Piero...
«Ho giocato con lui una partita di beneficenza a Torino. Mi piace molto anche lui. Ci vediamo poco, non siamo proprio amici, ma se lo incontro lo saluto volentieri».
Non le sembra che rispetto al passato il calcio inglese, sempre bellissimo, abbia perso un po’ di passione? Ci riferiamo al contorno, i tifosi, gli stadi, l’atmosfera ...
«Non ci vado spesso. Andavo al Maine Road. Ora sembra di essere a teatro. Tutti seduti. Dovrebbero creare, in sicurezza, dei settori da diecimila posti in piedi per riportare un po’ di atmosfera. Non è possibile che ora non si possa fare niente, gridare, alzarsi ... Il calcio è passione. Io non vado più per questo. Non puoi più godertela. È come se qualcuno abbia succhiato via la vita dagli stadi. Meglio guardarsi la partita in tv...».
Parliamo di musica. È un periodo molto impegnativo per lei: è appena uscito il nuovo disco, c’è un docufilm, la tournée ...
«Mi piace essere impegnato. Mi piace cantare per la gente. Sono fortunato a fare questo lavoro. Ho 46 anni, faccio questo da 20 anni... È appena uscito As it was, un documentario sulla mia attività di solista dopo lo scioglimento degli Oasis. E ora ecco Why me? Why not., il nuovo disco. E sto facendo concerti...».
Quest’estate ha cantato anche a Barolo ...
«Wow, posto magnifico. È stata una serata magica: luogo bellissimo, noi abbiamo suonato bene, il pubblico era fantastico. Non sempre queste tre cose si fondono così bene nella stessa sera».
Ci parli del documentario, As it was.
«Non è solo sull’ultimo tour. Parla un po’ di Oasis, non troppo. E poi ci sono immagini sulla fine della band e poi la nascita dei Beady Eye (band fondata da Liam Gallagher nel 2009 e sciolta nel 2014, ndr) e sulla lavorazione del mio primo disco solista. Ma non solo musica. Ci sono io che bevo, fumo, mi lamento… ».
In una delle nuove canzoni, Shockwave, lei canta “hallelujah, I feel free”. Parla di sé? Si sente più libero ora?
«Sì, mi sento libero. Non è che in passato non lo fossi. Era bello con gli Oasis, ma era chiaro chi comandava.
Era mio fratello Noel e decideva lui cosa fare. Lo si è visto quando ha sciolto la band. Ora ho una splendida compagna, dei bellissimi bambini, posso lavorare con autori diversi e poi suonare per la gente ... Mi sento assolutamente libero come mai prima d’ora».
In The river, il secondo singolo tratto dal nuovo disco, lei invita le nuove generazioni a combattere ...
«Non parlo davvero di combattere, dico che se non sei felice di una situazione devi svegliarti e provare a cambiarla. Le nuove generazioni mi sembrano troppo concentrate sulla tecnologia e sul possesso degli oggetti. La vita reale non è quella. E se la vita reale non ti piace, prova a cambiarla. Mia madre, quando eravamo piccoli, faceva tre lavori: io non volevo fare la stessa fine e ho provato a realizzare qualcosa di più che ci rendesse orgogliosi. Ma devi darti da fare. Ora cercano tutti di diventare famosi. Famosi per cosa? Perché hanno un nasino rifatto e delle labbra carine? Si diventa famosi se si ha talento e lavorando duro».
In The river ci sono anche riferimenti alla situazione politica inglese e alla Brexit?
«Qualcosa sì, ma a dir la verità non so molto delle questioni della Brexit e dell’Unione Europea. Rispetto entrambe le posizioni. Se penso a qualcosa di politico penso a tutti questi accoltellamenti che avvengono a Londra. Dovrebbero esserci più poliziotti nelle strade. Quello che sta avvenendo è terribile».
Il nuovo disco non segna un cambiamento radicale rispetto a quello precedente, As you were, ma un passo avanti. La voce è sempre più bella. Le canzoni sono di nuovo scritte con Greg Kustin e Andrew Wyatt.
«Sì, vero. È un grande disco. Mi sono fatto aiutare di più nella scrittura dei testi. Io sono più un cantante che uno scrittore di canzoni. Sono venuto a patti con questa cosa. Se devo cantare non accetto lezioni da nessuno, ma come scrittore conosco i miei limiti. Ho scritto meno».
Qual è il segreto della sua voce?
«Ci sto attento. Non fumo nei giorni del concerto e non bevo caffè né mangio latticini. Quando sono in concerto solo acqua, acqua, acqua…».
Nel disco, nella traccia One of us, suona anche suo figlio Gene. Come se l’è cavata?
«È un bravo batterista. Ha diciassette anni. Stavamo registrando nello studio di Londra su un pezzo senza batteria, perché il batterista non c’era. A un certo punto abbiamo pensato di aggiungerci i bonghi. L’ho chiamato e lui ha dato il suo contributo. È stato bello».
Insomma, la dinastia dei Gallagher continua ...
(da SportWeek, settimanale de La Gazzetta dello Sport, in edicola dal 28 settembre 2019)
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