Rho (Milano), 23 giugno 2018. Il terzo giorno di I-Days 2018 ha visto protagonista il rock britannico in molte delle sue sfaccettature. Alle 17 è stata la volta di Isaac Gracie, giovanissimo astro nascente del cantautorato d’oltremanica, che ha accarezzato l’arena con le sue melodie malinconiche a metà strada tra Tom Odell e Jeff Buckley. A seguire i redivivi Ride, tornati insieme dopo la reunion del 2014. L’araba fenice capitanata dall’ex-Oasis Andy Bell, passato poi dalla parte di Liam come chitarrista dei Beady Eye, precede l’esibizione dei Placebo, tra le più attese dell’intera manifestazione.
L’Open Air Theatre del Parco Experience Milano è carico per l’arrivo
della rock band inglese. Poco dopo le 19 un boato accompagna l’entrata
sul palco degli attuali turnisti della band: i 15mila di Milano
sembrano particolarmente ansiosi di riascoltare la musica di Brian Molko
e Stefan Olsdal, che fanno il loro ingresso in scena sulle note di Pure Morning.
Le lenti scure sugli occhi cercano di contrastare il sole che splende
esattamente difronte al palco, come un faro naturale che li espone
inesorabilmente agli sguardi famelici dei fan. Il frontman sembra in
giornata, la voce è ferma e precisa, mentre le mani picchiano con forza
sulla Fender azzurra che agguanta. Segue in scaletta Loud Like Love,
che sprigiona tutta l’energia dei presenti, ai quali Brian si limita a
rivolgere un gelido “Buonasera e grazie”. Per fortuna le poche parole
del cantante sono inversamente proporzionali al vigore delle sue
performance dal vivo, come nel caso della cupa Special Needs, terzo singolo del fortunato Sleeping with Ghosts del 2003, eseguita alla perfezione.
Neanche il tempo di fermarsi a guardare Molko far ringhiare a pugni
la sua chitarra in chiusura del pezzo, che sul palco compare un
pianoforte dietro al quale si posiziona Olsdal: l’arpeggio che parte è
quello di Too Many Friends. Il canto di Brian è affilato come
sempre, mentre il resto della band si limita a fare (giustamente) da
spalla al loro leader, carismatico come pochi. Special K mette
tutti d’accordo, il refrain della strofa è preda delle voci affamate
degli oltre 15mila spettatori accorsi per questa giornata di festival.
Molko, tra un pezzo e l’altro, fuma e beve intrugli non meglio
identificati. La scarica finale è un crescendo rock pazzesco: Song to Say Goodbye, The Bitter End e Infra-Red
sono le ultime canzoni suonate dai Placebo agli I-Days, che fanno
letteralmente impazzire l’arena. Molko continua a fumare tra una canzone
e l’altra, pur non risentendone sul piano vocale. Un attimo prima di
salutare il pubblico italiano, Olsdal sventola al cielo la sua chitarra
arcobaleno. Molko rimane da solo sul palco e gioca ancora qualche minuto
coi feedback delle chitarre distorte, prima di ringraziare la platea e
uscire definitivamente di scena.
Alle 21:30 è invece la volta dei Noel Gallagher’s High Flying Birds, tornati a Milano dopo la data al Fabrique dello scorso aprile. Come in quell’occasione, ad aprire le danze ci pensa Fort Knox, l’opening del loro ultimo album Who Built The Moon?.
Le voci della cantante di colore Ysée (pseudonimo di Audrey Gbaguidi), presenti anche su disco,
alimentano l’atmosfera magica d’inizio concerto. L’arazzo del Manchester
City che campeggia sul palco del maggiore dei fratelli Gallagher si
specchia addosso a tanti spettatori che, più per sentimento di
solidarietà verso il proprio idolo che per reale fede calcistica, sono
giunti alla venue vestiti d’azzurro. L’ambiente “cosmic pop” dell’intro
(come lo stesso Noel l’ha definito) lascia spazio alle ritmiche serrate
di Holy Mountain, che scuote l’arena. La resa sonora dal vivo
dei pezzi dell’ultimo disco, obiettivamente diverso dai suoi lavori
precedenti, è più “chitarristica” che nell’album. Tuttavia ogni suono
prodotto sul palco è estremamente pulito e riconoscibile, così come il
canto dell’ex membro degli Oasis.
Noel è di poche parole e si muove spedito tra un pezzo e l’altro
della scaletta. “Ciao Milano, c’è qualche fan degli Oasis tra voi?”
chiede beffardo. Il boato dell’arena cela la risposta, e segue la prima
canzone presa in prestito dal repertorio della sua vecchia band, Little by Little.
La sete di Oasis di gran parte del pubblico è così momentaneamente
appagata. La coda del brano è più lunga del solito ed è tutta per Gem
Archer, già chitarrista della storica band inglese a partire dal 1999. I
cori che inneggiano “Oasis! Oasis!” fanno a gara con quelli singoli per
Noel tra un brano e l’altro. L’artista inglese non sembra fare molto
caso a quello che accade sotto al palco, se non quando scherza con
alcuni ragazzi del pubblico autori di un cartellone che recita “Noel ha
messo incinta mia mamma”.
Con l’attacco improvviso di Wonderwall probabilmente gli
addetti al pronto soccorso avranno avuto un bel po’ da fare. Il potere
di quei quattro semplici accordi è indescrivibile e Noel lo sa bene,
lasciando che sia la gente a cantare gran parte del brano. Ma non è
ancora finita per i fan della prima ora: dopo una toccata e fuga nel
“nuovo” repertorio, con AKA… What a Life! e The Right Stuff, è la volta di Don’t Look Back in Anger.
I brividi lasciano il posto alla meraviglia dell’Open Air Theatre, che
canta all’unisono lo storico ritornello del brano. “C’è tempo solo per
un ultimo pezzo” dirà Noel poco dopo, in riferimento alla cover di All You Need is Love dei Beatles che chiude le setlist dei suoi concerti.
È innegabile che l’aver ascoltato Liam e Noel a distanza di due
giorni l’uno dall’altro abbia provocato una strana sensazione, come
quando un bambino deve dividere il suo tempo tra una mamma e un papà
separati. La speranza di rivederli insieme è sempre viva, non vuole cedere il passo alla rassegnazione. Qualcuno
dice di aver visto Andy Bell nei pressi del camerino di Noel ad I-Days
Milano. Non si erano lasciati benissimo dopo lo scioglimento degli
Oasis… ma se?
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