Il racconto e le foto del concerto di Liam Gallagher a Roma, prima data italiana del tour legato al suo nuovo album Why me? Why not., tra i successi solisti e le hit degli Oasis.
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È proprio dal repertorio della band simbolo del Britpop che Liam pesca a piene mani, riproponendo da solo mine come "Morning glory", "Stand by me", "Columbia", "Gas panic!", "Acquiesce", "Roll with it" e "Supersonic". Qualcuno lo accusa di continuare a campare grazie alle canzoni scritte dal fratello, che è in parte vero: però senza l'interpretazione di Liam, probabilmente quei pezzi non sarebbero diventati gli inni generazionali che a distanza di anni continuano ad essere, cantati a squarciagola tanto da chi la scena Britpop l'ha vissuta direttamente (e oggi, a cinquant'anni, si scatena sugli spalti o in parterre perdendo ogni dignità) quanto da chi quando uscì "Definitely maybe" non era ancora nato. Liam fa riascoltare quelle canzoni con la stessa presenza scenica e con l'attitudine sfrontata e arrogante di venticinque anni fa, piegato verso il microfono con le mani nascoste nelle tasche del parka o dietro la schiena, spalleggiato da una super band composta da Mike Moore e Jay Mehler alla chitarra, Drew McConnell al basso e Dean McDougall alla batteria (ad un certo punto sul palco arriva anche suo figlio Gene, diciott'anni, che ha deciso di seguire le orme del padre - e anche della madre, Nicole Appleton, cantante delle All Saints - fondando una band tutta sua).
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(Rockol)
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La mia vita non doveva andare così, qualcosa non ha funzionato. Vorrei solo tornare a casa e togliermi le scarpe e invece fra meno di un paio d’ore dovrò partecipare a uno di quei riti collettivi che dopo i trent’anni hanno cominciato a pesare come un macigno sulle mie spalle: i grandi concerti. Così come pesano sulla mia digestione i buonissimi paninacci che vendono fuori dal Palazzo dello Sport all’Eur, una cena che pagherò carissima domani.
Esattamente quattordici anni fa avevo saltato la scuola ed ero qui già da dieci ore, avvinghiato ai cancelli di quello che si chiamava ancora Palalottomatica, in vista dell’unico concerto degli Oasis a cui abbia assistito in vita mia, febbraio 2006. Dovevo esserci, anche se ero in una fase già calante della mia passione più pura per la band, che del resto era in calo già da qualche anno, soprattutto dal vivo, quelli erano gli anni peggiori.
Come è possibile che a distanza di tutto questo tempo io sia diventato un rottame e il ragazzone che se ne sta lì al centro del palco sembra essere ringiovanito? Non esteticamente: barba visibilmente sbiancata, capelli un po’ più radi dalle parti delle tempie, qualche chilo e qualche ruga in più, ma a parte questo: in che anno siamo?
Liam Gallagher si presenta sul palco con un parka bianco di cui non si capisce bene il materiale neanche guardandolo dal maxischermo, a tratti sembra una specie di tunica di lino da asceta, soprattutto quando indossa il cappuccio, pare un santone e a tutti gli effetti lo è, perché il pubblico va in estasi alla prima nota di ogni canzone degli Oasis di cui è farcita la scaletta.
Questo è un aspetto che mi ha sorpreso: forse troppo distrattamente nelle ultime settimane avevo dato un’occhiata ai live più recenti ed ero preparato solo a quattro o cinque pezzi degli Oasis – i classiconi, molti neanche tra i miei preferiti – in un mare di pezzi da solista, che, per inciso, non mi dispiacciono affatto. Invece eccoci tutti catapultati in una preview della fantomatica riunione dei fratelli Gallagher che travolge il Palazzo dello Sport strapieno, agghindato come per le vere grandi occasioni, nel bene e nel male, il che significa entusiasmo che si taglia col coltello, ma anche: spegnete per un attimo quei cazzo di cellulari.
«Campeoooones campeoooones, olé olé olé olé» la parte più coatta e popolare che preferisco degli Oasis e di LG che apre il suo concerto con i cori dedicati al Man City campione – ancora per poco purtroppo per lui – seguiti subito dopo da Fucking in the bushes sparata a cannone, in piena regola con ogni sacrosanto concerto degli Oasis dal 2000 all’eternità. Ancora una volta, in che anno siamo?
Apre le danze Rock’n’Roll Star per poi lasciare spazio alla doverosa carrellata di pezzi nuovi, ai quali il pubblico reagisce bene, soprattutto quando si tratta dei singoli come Shockwave, Wall of glass o For what is worth, ma sono decibel irrisori rispetto a quelli raggiunti nella seconda parte del concerto. Liam Gallagher si muove sul palco esattamente come negli ultimi trent’anni, i rituali sono sempre gli stessi e questo in qualche modo mi fa stare tranquillo, così come, in generale, l’idea che stia in giro per il mondo in tour, ancora nel 2020. La voce risponde bene – benissimo se paragonata a quella che ho ascoltato nel 2006 – anche negli sforzi per reggere Morning glory o Roll with it.
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Per quanto mi riguarda oggi le orecchie mi fischiano come non accadeva da tempo, il panino l’ho digerito piuttosto bene per fortuna. Sono felice di aver salutato nella mia città, quello che per me e molti altri è una figura che ormai va al di là della musica, una specie di zio lontano, di cui ti capita di trovare notizie e video simpatici nel feed che ti strappano un sorriso, anche se non lo segui più come un tempo, ti fa stare sereno saperlo sereno e in giro a godersi i cinquant’anni facendo quello che ama, un po’ ti sembra persino di capirlo, visto avete la fortuna di fare due lavori in cui è preferibile restare giovani per sempre.
(Rolling Stone)
Scaletta
Rock’n’roll star
Halo
Shockwave
Wall of glass
Come back to me
For what it’s worth
Morning glory
Stand by me
Columbia
Once
The river
Gas panic!
Live forever
Acquiesce
Roll with it
Supersonic
Champagne Supernova
Wonderwall
Cigarettes and alcohol
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